EDITORIALE
L'editoriale e' una rubrica che discute di temi economici in senso generale. SI guarda all'andamento dell'economia, a aspetti teorici, alla societa' ad aspetti economico/istituzionali. RIflette un indirizzo,non di partito ma una opinione progressista per un migliore vivere sociale, economico e politico.
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AL CAPONE E LA TASSA SUL REDDITO 18-10-14
Su questa figura del rampantismo americano degli anni 20 si e’ letto parecchio. Cresciuto sotto il proibizionismo USA si dice abbia fatto fortuna nella produzione di alcolici e che aveva negli USA una notorieta’ per cui quello che diceva finiva sui giornali come se fosse un politico, e non c’era funzionario o politico che non si intratteneva in scambio di opinioni.
Mentre in |nghilterra i proprietari delle distillerie di alcolici acquistavano fortune e reputazione, negli USA invece questa della distilleria era attivita’ fuorilegge. Il proibizionismo sugli alcolici fu poi abolito ed i fatti hanno detto fosse un errore e comunque e’ visto oggi tra quelle attivita’ statali illiberali.
Questo inusuale imprenditore divento’ poi il centro di una ostilita’ di una parte della amministrazione USA che si potrebbe dedurre molto anche fatta di quei lealisti britannici in lotta da sempre con gli italo-americani per cui parte di questa amministrazione cercava pretesti per arrestarlo.
Subi piu’ inchieste per esempio una nella quale era accusato di fare sleali politiche sui prezzi nei mercati alimentari, accusa quanto mai sproporzionate alla etichetta di gangster che questa classe USA gli ha associato nei media. Comunque alla fine fu accusato di evasione fiscale perche’ non pagava sembra la tassa sul reddito.
La tassa sul reddito che fu inserita nergli USA nel 1913, segui’ di cio’ che avvenne in Inghilterra dove per prima apparve all fine del secolo ed era una assoluta novita’ nell’ambito della normativa fiscale. Le pressioni per una tassa sul reddito arrivavano da piu’ parti, non solo dall’Inghilterra ma anche dall’ideologia marxista. In pratica, la raccolta fiscale si muoveva da un sistema di tasse sulla persona o “ a testa” e sulla proprieta’, ad un sistema di tasse sul reddito cioe’ in rapporto e proporzione alle tasche di ognuno in base ai propri guadagni. Ci si potrebbe domandare se il sistema fiscale fino ad allora “a testa” per secoli fosse un sistema di corte vedute e se questa tassa sul reddito fu una soluzione autenticamente innovativa. Vero infatti che la tassa sul reddito presenta delle difficolta’ pratiche ad esempio che risiedono proprio sull’accertamento dei redditi, e poi di equita’ nonche’ di diritto, cioe’ perche far pagare piu’ ad alcuni e meno ad altri sulla base che un soggetto guadagna di piu’ di un altro. Temi questi di non poco conto.
Giusti o meno giusti i fondamenti di diritto su questa tassa, rimane da valutare il sistema di accertamento e di raccolta, che e’ un aspetto di questa tassa che ha non pochi lati discutibili. Accertamento sul reddito della gente e’ compito quanto mai arduo; si affida alle aziende impiegatizie per la raccolta delle tasse dai salariati e sul principio dell’autocertificazione del contribuente negli altri casi. Infatti si potrebbe discutere su questo sistema che genera due classi di cittadini in base alla certezza dei redditi fiscali. Si potrebbe discutere sul sistema dell’autodeterminazione fiscale sia un fatto proprio o meno, e quindi se corretto da parte dello stato esigere tasse senza aver fatto un invito al pagamento al cittadino ma attendersi che altri lo facciano per loro ( le aziende) o che questi lo facciano di proprio.
Infatti, lo stato , mentre dichiara la tassa e’ sul reddito, si trova di fronte ad una obiettiva difficolta’ di imputare l’imponibile di tassa a ciascuno da prima. Tolti i salariati il cui reddito si sa dalle aziende, dice il fisco, lo dica il contribuente quanto guadagna; poi, se inganna il fisco, sara’ punito.
La verita’ e’ che la questione e’ un po piu’ complessa di come si fa intravedere. Infatti bisogna guardare la questione dal profilo del diritto e quando nasce l’obbligazione di un privato al pagamento della tassa. La obbligazione per legge inizia con un invito a pagare diretto a chi deve pagare un importo gia definito contenuto in un avviso. A rigore di legge senza avviso non nasce obbligo. Quindi la domanda: esiste un obbligo a pagare senza avviso? Il diritto direbbe di no. Rimane legittimo chiedersi se questa tassa sul reddito cosi’ come e’ istituita sia la ottimale e la giusta soluzione per una repubblica democratica.
Editoriale di Andrea Carola 8-1-14
UNA RICETTA GIUSTA?
Indubbiamente oggi l’ordine economico mondiale post bellico e’ uno keynesiano. Il keynesismo si afferma gia’ prima della guerra dopo la crisi del 29 e si basa su un principio economico che fa centro su una equivalenza tra prodotto e reddito nazionale e sul principio di una economia di ciclo, cioe’ di domanda di beni che genera la sua offerta e viceversa. Nell’essenza il keynesismo introduceva il principio di una societa’ economica che, forte della esperienza della Grande Depressione, non puo’ funzionare senza lo stato del quale si necessita un ruolo. Il keynesismo diventa quindi fautore di uno stato nell’economia con una funzione di motore di crescita e quindi diventa artefice dello stato sociale di oggi che cresce sulla tassazione e sul debito pubblico.
il keynesismo, anche senza essere proprio un prodotto del social marxismo, ne ha guadagnato le simpatie quale sostenitore della necessita’ di un principio di un grande stato nell’economia.
Da italiano per valutare questa dottrina anglosassone puo’ essere utilizzato il taccuino nazionale, e quindi si puo’ guardare all’equazione beccariana. Questa dice che l’azienda, o il sistema di aziende in uno stato, compra materie prime e le tratta e quindi le trasforma in diversi stadi di produzione dopo una serie di transazioni dove in ognuno di questi stadi di produzione ciascuna azienda vende una parte di quello che produce ad altre aziende come semilavorato ed una parte ai mercati di consumo finale; alla fine quello che conta sara’ il prodotto utile netto, cioe’ netto delle materie prime e per cui tale prodotto sara’ equivalente al lavoro di chi e’ stato impiegato per trasformarlo ed allo stesso tempo ai salari che misurano quel lavoro; cio’ genera la prima equazione beccariana e cioe’ vaore aggiunto = reddito del lavoro.
Su questa base poi dice l’economista milanese, la classe di produzione che genera salario, a sua volta poi acquista i prodotti per il consumo per se stesso, quali vestiario, alimenti, vitto etc. etc. Quindi, dedotti questi acquisti, il salario netto di questi costi, cioe’ quello rimane nelle tasche della gente in senso lato, genera il surplus di una nazione o reddito netto o risparmio nazionale.
Se la nazione e’ in ciclo chiuso, cioe’ senza guardare all’estero, sara’ sempre questo reddito netto mediamente = 0,poiche’ alla fine quello che si consuma si produce e viceversa, e non puo’ essere altrimenti e non ci sara’ mai spazio per un surplus di risparmio; questa equazione sara’ quindi sempre soddisfatta; ma se si include il commercio con l’estero, questo bilancio risparmio sara’ invece positivo in corrispondenza di un surplus commerciale; Per cui il risparmio nazionale diventa sinonimo di saldo di bilancia commerciale ed e’ visto possibile solo o se una nazione vince in competitivita’; la equazione nazionale generera’ quindi un surplus o risparmio nazionale = esportazioni nette.
Tornando J. Keynes e la sua teoria generale bisogna innanzitutto dire quindi che questi fatti che dice si sapevano gia in Italia e non erano una novita’. Keynes attinge dalla prima di queste 3 equazioni perche’ egli dice la stessa cosa ed e’ successivo, e quindi cioe’ che l’azienda compra da altre aziende e trasforma il prodotto che acquista, ma nell’aggregato quello che conta e’ il valore aggiunto che deve essere eguale al reddito e quindi ai consumi finali. Questa la base della prima equazione keynesiana ma che e’ beccariana e cioe’ l’equivalenza tra prodotto e reddito. Poi keynes lavora su questa base i principi della sua teoria generale. Diciamo che parte da buoni principi, di stampo italiano, fatto che gli ha dato buona reputazione. Tuttavia egli giunge alla seconda equazione keynesiana e dice il reddito equivale al prodotto e quest’ultimo equivale al consumo dei settori istituzionali e nella sostanza dice egli , il risparmio si ottiene solo a scapito del consumo e dipende dalle abitudini della gente e quindi asserisce perche alla fine il consumo genera prodotto e occupazione, allora vi e’ una inversa relazione tra risparmio e prodotto nazionale. Quindi la teoria keynesiana, che e’ una teoria dell’occupazione,, prende un’altra strada. La teoria keynesiana ha determinato le teoria del consumismo, e quella dello stato sociale, cioe’ di uno stato che meglio di un privato e’ in grado di ottenere crescita economica ed appari’ proprio in quegli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione dove appunto avvenne quel vuoto di domanda per cui trovava giustificazione il ruolo per un grande stato.
Anche se prende spunto da buoni propositi introducendo questa equivalenza tra reddito e prodotto, poi non segue la stessa analisi beccariana, tuttavia, e la teoria generale diventa quindi teoria menomata quando stabilisce un inversa relazione tra reddito o prodotto e risparmio e comunque si ferma prima di fare un vero punto utile. E cosi’ dice tante cose giuste ma conclude bisogna soppiantare la carenza di domanda interna perche’ vi sono motivi intrinsechi nei comportamenti degli agenti per cui questa viene meno.
Se si guarda al profitto nazionale si dovrebbe in genere lodarlo ed incoraggiarlo. Invece dalla teoria keynesiana si legge un principio di una economia che in mano ai comportamenti degli agenti, o attori economici, e quindi lavoratori, consumatori e aziende, e’ viziata di natura, wicked si potrebbe dire in Inglese, cio’ dovuto all’avidita’ dell’individuo tipica dei postulati anglosassoni, ispirati anche dal papalismo che ecceggiava dopo la enciclica De Rerum Novarum a cavallo del 20 secolo quando prendeva piede la nuova era industriale. La prerogativa verso la ricerca del proprio tornaconto porta l’economia in modo naturale alla contrazione ( entropia) in una situazione quindi che richiede invece, secondo il keynesismo, uno stato che supplisce domanda e produzione in aggiunta al suo ruolo di regolatore e di autorita’. Da qui quindi poi nasce la teoria dello stato sociale sotto la dottrina dello “spendere” che significa crescita e occupazione. Questa visione sara’ assolutamente consequenziale con quella smithiana che eleggeva un secolo e mezzo prima il tornaconto personale a motore dei rapporti economici e allo stesso tempo incontrava le aspettative della cutura marxista che denunciava la stessa concezione di un fallimento del business cycle dovuto alla natura predatoria dell’individuo, marxismo che entra tra le dottrine consolidate dopo l’avvento dei trade union proprio in Inghilterra. Infine, considerazione non da poco valore, il contesto generale in quegli anni di un mondo occidentale in mano alle monarchie, in pratica, questo accentramento statale avrebbe implicato famiglie regnanti molto piu’ potenti ed un popolo sempre meno influente e la rivoluzione liberale ricondotta sotto controllo statale il piu’ possibile in quanto imperfetta. SI puo’ anche intuire che tra i motivi per questo stato sociale vi siano anche quelli finalizzati a reinsaldare lo spirito monarchico. Quindi questa teoria generale diventava strumento di sostegno ad un moderato conservatorismo monarchico.
Ma bisogna guardare anche ai fatti concreti. E’ necessario poi questo stato nell’economia? Se si guarda alla equazione in termini tecnici che alla fine e quello che conta, se il surplus netto o risparmio o nuova ricchezza non e’ sottratto dal prodotto, ma e’ aggiunto quale risultato di maggiore competitivita’ dei prodotti nei mercati internazionali, questa concezione iivece di un risparmio nazionale che leva prodotto nazionale non si regge piu’ e nemmeno sarebbe possibile. Si puo intravedere che mai ci sara’ questa penalizzazione che parte sul risparmio e che ruota su una classe lavorativa che mette su risparmio a scapito del prodotto come a seguito di una sorta di sconcio “furto di prodotto nazionale” che leva il pane di bocca ad altri. Per la scuola illuminista sara’ sempre questo risparmio in vece generato su meriti in una sequenza causa effetto opposta e sempre invece premio e quindi il risultato di una maggiore competitivita’ in produzione, vuoi che sia dovuta a maggiore educazione, migliori leggi , maggiore qualita’ dei prodotti e programmi innovazione che si specchia in una migliorata bilancia commerciale; ne consegue che la giusta ricetta non e’ quella di uno stato che spende ma di uno stato che regola bene. Imperativo il ruolo di uno stato invece minerviano, cioe’ improntato ad istillare forza, scienza,educazione e giustizia nelle istituzioni repubblicane, e laddove queste non vi sono, che porti anche queste nazioni verso riforme repubblicane, le sole premesse per questo successo economico.
Questa teoria keynesiana alla fine, parte anche da buoni spunti e assolve qualche funzione, ma poi devia e serve interessi di accentramento e si presta ad assolvere finalita’ politiche la cui utilita’ pubblica e’ tutta da stabilirsi, ed alla fine vende parecchia mediocrita’ e lascia non pochi insoddisfatti tra tecnici ed utenti nonche’ le tesorerie dello stato.
Editoriale di Andrea Carola 28-8-13
Si puo’ parlare di crisi economica?
Se guardiamo ai redditi medi in Italia del lavoro dipendente, questi si tengono su valori, prima di tasse ancora accettabili. La disoccupazione c’e’ ma si deve collocare bene il dato, ad esempio bisogna guardare anche al totale occupati nell’economia. C’e’ una differenza infatti tra disoccupazione e percentuale di occupazione. L’occupazione scende ma non in modo drammatico. L’italia e’ un paese con popolazione costante, cioe’ si tiene intorno ai 60 milioni e quindi non c’e’ sorpresa che l’economia sia stazionaria. Si sa che l’aumento di popolazione e’ causa di crescita economica, non il solo, ma non si puo’ ad esempio comparare l’Italia agli Stati Uniti che ad esempio negli ultimi 25 anni quasi ha raddoppiato la popolazione grazie agli immigrati. il dato economico USA riflette anche la crescita di popolazione.
Fermo stando le leggi in Italia forse guardando ai numeri di meglio non si potrebbe fare.
Ma il problema che esiste e’ invece uno di meritocrazia, di disuguaglianza, di alte tasse, di prevaricazioni, di favoritismi e clientelismo nella spesa e nei finanziamenti bancari. Fattori che rallentano l’economia, riducono il reddito disponibile e gravano sulla bilancia dei pagamenti.
In primo luogo bisogna guardare alle tasse. Se guardiamo ad esempio alle tasse praticate dallo stato Italiano prima della guerra, queste si sono triplicate oggi. Lo stato sociale ha chiesto sempre piu’ soldi e quindi tasse in particolare dagli anni 80 con i governi socialisti che hanno dato lo spin alla spesa pubblica. E’ cosi’ lo stato nell’economia, dal peso del 25% durante il fascismo( del 20% in pace) e’ passato al 33 del dopoguerra e poi al 45% con i governo Craxi; oggi siamo li.
Vi sono poi i privilegi di alcune classi in particolare nel paralegale, con accesso alla giustizia ed a certi servizi pubblici che generano alti costi che sono stati recentemente anche denunciati all’Italia dalla comunita’ internazionale che rallentano e appesantiscono il corso delle piccole e nuove imprese; ci sono poi problemi con le pensioni, improponibile sistema per la previdenza e vecchiaia che genera un vero malcostume verso le persone anziane.
Ci sono problemi con il sistema sindacale che fa troppa contrattualistica e poco interessi della classe del lavoro. C’e un sistema bancario impredicibile e sacca di favoritismi. Il tutto crea una classe di consumatori insoddisfatta,i prodotti sono poco competitivi e la bilancia commerciale va in rosso. I migliori non sono premiati. Cio' infine determina una classe di imprenditori demotivata ed una attivita’ imprenditoriale inceppata da questi ed altri fatti.
In somma alla fine quasi meta’ di questo benessere arriva da servizi imposti via tasse e se si va a guardare a quanto si tiene in tasca la gente ed alla qualita’ di quello che ottiene con quello che gli rimane la qualita’ del reddito e’ bassa; il problema economico e’ quindi oggi di qualita’ e cioe’ dei risultati che disilludono le aspettative dei programmi di questo stato sociale.